martedì 8 marzo 2011

Commento su “Cristo si é fermato a Eboli” di Carlo Levi ( dal club di lettura) Di Carmine Vilardi

Cristo si è fermato a Eboli è il racconto di una scoperta. La scoperta – prevedibile ma inaspettata nella sua crudezza – di un mondo dentro il mondo, di un’Italia astorica e silenziosa dentro l’Italia rumorosa e retorica degli anni Trenta del secolo scorso.
La scoperta avviene – come spesso accade per le grandi scoperte – in modo fortuito: un giovane intellettuale torinese, di origine ebraica e dalle tendenze politiche progressiste, viene mandato al confino – per la sua opposizione al regime fascista – a Gagliano, un paesino dell’entroterra lucano abitato prevalentemente da due gruppi sociali ben distinti: da una parte un’ambigua borghesia latifondista e dall’altra parte un mondo contadino oscuro e ripiegato su se stesso. Il narratore – alter ego dell’autore stesso – non tarda a riconoscere la grettezza morale e psicologica dei latifondisti, e l’umanità carica di una spontanea e immediata umiltà dei contadini. Con questi ultimi si stabilisce da subito un rapporto basato su una reciproca “simpatia” – intesa etimologicamente come capacità di soffrire insieme, di capire profondamente le sofferenze dell’altro fino quasi all’identificazione – che porta il narratore ad approfondire la conoscenza di quel mondo nei suoi riti, nelle sue abitudini, nei suoi miti.
Levi intraprende così una riflessione, breve ma incisiva, su oltre due millenni di storia, dalla conquista greca delle coste lucane al fascismo, osservando gli eventi da un punto di vista radicalmente diverso da quello ufficiale, rivedendoli da un’angolazione fino a quel momento – il libro è stato scritto tra il 1943 e il 1944 – inedita. L’autore unisce la sua partecipazione integrale alla sofferenza degli altri a una profonda capacità di analisi empirica degli eventi, e affronta temi quali la questione meridionale, il brigantaggio, le emigrazioni di massa, la magia, l’amore inteso come spontanea unione carnale e la consanguineità come valore opposto a un astratto senso dello Stato, arrivando alla conclusione che quel mondo, disprezzato quando non dimenticato, costituisce una realtà fondamentalmente positiva, un insieme di valori da rispettare e da riconoscere. Un riconoscimento che può avvenire, nell’opinione straordinariamente attuale dell’autore, solo attraverso una profonda riforma dello Stato in senso federalista, che sappia assicurare la coesione – e contemporaneamente garantire il rispetto delle innumerevoli particolarità – di quel prezioso mosaico di culture chiamato Italia.

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